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«Io, segretario di Togliatti, vi dico che fu il Peggiore»
di Stefano Lorenzetto
Mai più si rivedrà, sotto la volta celeste, il circo equestre che vantò fra i suoi cavalli di razza Massimo Caprara, per 20 anni segretario di Palmiro Togliatti. Mai più tornerà in scena la commedia umana che ebbe fra i suoi protagonisti questo borghese napoletano colto e garbato, già sindaco di Portici e deputato, poi eretico col gruppo del Manifesto, saggista, direttore dell'Illustrazione italiana, chiamato al Politecnico da Elio Vittorini e al Giornale da Indro Montanelli. Che gente! Che tempi!
C'era Armando, «muratore romano della Garbatella elevato al rango di guardaspalle», rievoca Caprara, «che andava tutti i giorni dal macellaio a comprare il cervello da servire panato e fritto al capo comunista perché diceva che il Migliore, essendo il cervello del partito e avendo più cervello di tutti noi, doveva mangiare cervello mezzogiorno e sera per mantenere intatta la sua intelligenza», e ora si comprende meglio l'eziologia dell'ictus che nel 1964 stroncò il despota rosso sulle amene rive di Crimea.
C'era Gennaro, contrabbandiere di sigarette napoletano «che fungeva da autista e all'occorrenza da uomo di mano, soprannominato Zazà a causa della sua predilezione per le riviste di varietà che si davano al teatro Margherita in Galleria Principe Umberto», cosicché qualcuno avrebbe potuto chiedersi «Dove sta Zazà?» quando lo studente Antonio Fallante il 14 luglio 1948 impiombò per strada il segretario del Pci con tre colpi di Smith and Wesson.
E questi erano i comprimari. Poi c'era Lui, il deus ex machina della trama sanguinolenta, il compagno Bessarione nato da una lavandaia e da un ciabattino, il «piccolo padre» che mangiava vivi i propri figli, il demone delle purghe e dei gulag: Josif Vìssarionovic Stalin. Nel vialetto privato della dacia di Barwika, presso Mosca, che era appartenuta al principe Donskoj, Baffone venne incontro a Caprara adorno delle medaglie di generalissimo, senza berretto, i capelli sorprendentemente grigi.
«Era marzo, mulinelli di vento siberiano sollevavano la neve, e io ero uscito dalla dacia con addosso soltanto la giacca, un errore che non commise Nilde lotti, la quale indossava infatti una sontuosa pelliccia di zibellino avuta in prestito dal Comitato centrale del Partito bolscevico. A un certo punto cominciarono a lacrimarmi gli occhi per il gelo. Stalin, credendo che mi fossi commosso alla sua vista, mi battè una mano sulla spalla, esclamando in francese: "Courage, camarade", coraggio, compagno. Dopodiché si mise a parlarmi di Capri».
Andare a trovare Massimo Caprara nella sua casa milanese, un fortilizio di libri abbellito da due strepitosi Sìroni e altri pregevoli dipinti messi insieme col senso estetico ereditato da uno zio materno che collezionava Modigliani, Matisse, De Chirico, Morandi e Carrà, è come salire in groppa a un destriero e attraversare al galoppo l'intero Novecento, il secolo delle idee assassine.
A ogni stazione di posta, un incontro appassionante: il generale Badoglio che nelle sedute di governo parla con Togliatti in dialetto piemontese per non farsi capire da Benedetto Croce e Caprara, pietoso, che traduce in partenopeo per l'attonito ministro-filosofo; l'avvocato Renato Cigarini che, in un impeto di vanità, rivela all'uomo di fiducia del Migliore d'aver riciclato per ordine di Togliatti il fantomatico oro di Dongo sottratto a Mussolini; Ernesto Guevara de La Sema, meglio noto come il Che, che in viaggio da Ginevra a Praga si ferma a Montecitorio, aspetta a lungo d'essere ricevuto da Togliatti e finisce a parlare di Cuba, di Castro e di imperialismo col suo giovane segretario; l'attore Yves Montand che riceve a Parigi, nella villa con parco, Caprara e Luigi Pintor, inviati del Manifesto, e consegna «per la causa» un bonifico con tutti i diritti incassati dai suoi film in Italia.
Oggi Massimo Caprara non è più comunista. «Il dato evidente è la bellezza di Dio», ha scritto. Dev'essersi bevuto il cervello, pensano gli ex compagni. O forse ne avrà mangiato troppo poco panato e fritto alla mensa del compagno Ercoli, chissà. Non capiscono il suo «Riscoprirsi uomo», come ha intitolato il libro che , uscirà a giugno da Marietti, «storia di una coscienza», la sua, scritta a quattro mani con Roberto Fontolan, giornalista vicino a CI. Gli hanno appioppato per questo un nomignolo velenoso: Comuni stone e liberazione.
«Sono stato per un quarto di secolo prigioniero volontario dell'ideologia comunista, il contrario dell'ideale. L'ideale è speranza, futuro, larghezza dello spirito. L'ideologia è ripiegamento, non più futuro, ma l'essere sempre e comunque conservatori uguali a se stessi. ; Non ho mai incontrato don Giussani e non conosco i capi di CI. Però mi affascinano la libertà e l'amicizia che avverto al meeting di Rimini. Le dico di più: provo la stessa affine emozione anche quando leggo San Josemaria Escrivà de Balaguer, fondatore dell'Opus Dei».
Giampaolo Pausa la annovera tra i «coccodrilli senza pudore». «Tra le scarpe o tra i coccodrilli veri?».
Michele Serra ha scritto che lei da la «malinconica sensazione di un vertiginoso vuoto, non solo di stile». «Mi dispiace molto per lui».
Quando e come diventò comunista? «Nel '39-'40 sui banchi del liceo Manzoni, qui a Milano, dove i miei genitori, abruzzesi di Atri, erano emigrati. Avevo molti professori antifascisti, da Raffaele De Grada, che era supplente di storia dell'arte in terza liceo, al professor Dino Formaggio, poi ordinario di estetica all'Università di Padova, entrambi ancora vivi, novantenni. La domenica De Grada portava i migliori di noi, i rampolli delle famiglie altoborghesi, al parco della Villa Reale di Monza. Ci sdraiavamo nell'erba e lui ci leggeva Marx ad alta voce. Però il. primo libro su Trotzki] lo trovai nella biblioteca dei Gruppi universitari fascisti a Napoli. E su IX Maggio, settimanale dei Guf, riuscii a pubblicare un articolo a favore dell'Internazionale comunista».
Giuri. «Giuro. L'unico che se ne accorse fu Mussolini, che da Roma telefonò al federale Nicola Sansanelli, destituendolo all'istante: "Coglione! Vi siete fatto prendere in giro da un comunistello di Posillipo". Sansanelli piangeva, me lo raccontò lui stesso anni dopo quando divenne sindaco di Napoli».
Mentre De Grada le leggeva Marx, non coglieva qualcosa di storto in quella dottrina? «Sentivo che era ingiusta. Ma i maestri mi sembravano ottimi. A costoro il 27 marzo 1944 si aggiunse Togliatti, sbarcato a Napoli di ritorno dall'Urss. Croce, fino ad allora mio nume tutelare, era il passato. Togliatti rappresentava l'avvenire. Croce ci diceva: "Dovete crescere". Togliatti: "Dovete fare". Napoli era monarchica fino al midollo, ogni giorno rivoltellate e botte. Il sedicente Ercoli bussò alla porta della federazione, in Scala San Potito, dichiarando la sua vera identità. "Se tu sei Togliatti, io sono Stalin!", lo respinse un compagno dallo spioncino».
Chi la presentò al Migliore? «Eugenio Reale, che nel 1956 sarebbe uscito dal Pci in seguito ai fatti d'Ungheria. Per un mese Togliatti non mi parlò mai, dico mai, di politica. Solo di letteratura, italiana e francese, soprattutto Rousseau, Voltaire, Malraux. Il 1° maggio mi chiese a bruciapelo: "Che te ne pare di Vittorini ?". Figurarsi io, che dell'autore di Conversazione in Sicilia ero assiduo corrispondente. Pensai: questo non è un partito, è un salotto letterario. Casa mia. Una cosa era il popolo, un'altra la nomenklatura. I capi comunisti erano tutti figli dell'alta borghesia, neanche uno veniva dal popolo. Il segretario selezionava fra loro i più colti, meglio se imbibiti di cultura francese. Io fui nominato sul campo suo segretario e caporedattore di Rinascita».
Il primo incarico da segretario? «Letterario. Coincise col primo viaggio di Togliatti fuori Napoli. Lo portai a Capri, nella villa di Curzio Malaparte, che di ritomo dalla guerra finnico-sovietica aveva scritto per la rivista Prospettive una serie di articoli stupendi dal titolo "Sangue operaio"».
Lo seguiva ovunque? «Quasi ovunque. Quando una notte del marzo 1945 ebbe un incontro segreto in Vaticano con Pio XII, sollecitato dallo stesso pontefice, portò con sé solo Umberto Fusaroli Casadei, un partigiano che nell'occasione gli fece da autista. Non voleva mai intorno a sé testimoni scomodi. To-gliatti era di indole cospirativa ed esercitava un'influenza magnetica sui suoi immediati collaboratori, fino a renderli ogni giorno più riservati e circospetti: "Lo constatavo", ha scritto Giulio Andreotti, "in Massimo Caprara, sempre cortesissimo, ma che andava perdendo, foglia a foglia, la sua napoletanità per assomigliare a un compassato giovane diplomatico della Mitteleuropa<"».
Un momento: ma Fusaroli Casadei non è quel tizio di Bertinoro, Forlì, che nel 2001 confessò al Giornale d'averne ammazzati a centinaia e di addormentarsi tranquillo la sera? «Esatto. Mica è l'unico. I comunisti messi insieme sembra che riflettano, ma presi individualmente sono barbari. Togliatti fece fuggire in Cecoslovacchia il criminale Francesco Moranino, detto Gemisto, che aveva fatto fuori 52 combattenti delle formazioni partigiane liberali in Piemonte».
A me pare che fosse accusato di sette omicidi... «Dice? Comunque Gemisto fu fatto eleggere deputato da Togliatti e salvato dai due ergastoli ai quali era stato condannato a Firenze e a Torino».
Fusaroli Casadei rivelò anche al Giornale d'essere il comandante che la notte fra il 6 e il 7 luglio 1945 diede l'ordine di eliminare 54 persone detenute nel carcere di Schio, nel Vicentino, un modo partigiano di regolare i conti col fascismo. «Fusaroli Casadei a me raccontò che Adamo Zanelli, segretario del Pci di Forlì, gli aveva messo in mano una pistola ingiungendogli di sparare persino a Togliatti nel caso in cui, anziché all'incontro con Papa Pacelli, il Migliore si fosse recato a parlamentare con Umberto di Savoia, come sospettavano alcuni dirigenti del partito. Comunque ricordo che in quello stesso anno i responsabili dell'eccidio di Schio si presentarono nel mio ufficio a Roma. Togliattì organizzò la loro fuga in Cecoslovacchia, dove fondarono la sezione italiana del pc cecoslovacco. Due di questi latitanti finirono a lavorare a Radio Praga. C'è un filo rosso che porta dalla mattanza di Schio alle Br. Rapire e ammazzare Aldo Moro è un compito che puoi affidare solo a chi crede ciecamente nella rivoluzione e vi si è preparato militarmente».
Fino a quando Togliatti la tenne come segretario? «Fino alla morte, avvenuta nel 1964».
E il suo ripudio del comunismo quando sopraggiunse? «La crisi cominciò nel febbraio di quell'anno, all'uscita di Togliatti 1937, un libro, subito fatto sparire dagli scaffali, scritto da Renato Mieli, padre di Paolo, l'ex direttore del Corriere della Sera. Un ebreo perseguitato che era stato capo della divisione esteri del Pci e responsabile milanese dell' Unità. Io l'avevo conosciuto a Napoli nel 1944, dov'era giunto da Gerusalemme col nome di maggiore Merryl al seguito dell'Armata inglese e mi aveva assegnato la carta razionata per stampare Rinascita. Eravamo diventati amici. In quel libro Mieli parlava per la prima volta di Togliatti negli anni della guerra civile in Spagna. Dopo averlo letto, io e Marcella Ferrara, la madre di Giuliano, che era segretaria di Rinascita, ci stropicciammo gli occhi e ci dicemmo: non può essere vero, sono menzogne».
Che cosa non poteva essere vero? «Che Ercoli, alias Togliatti, spedito in Spagna dal Komintern, avesse collaborato al massacro di 600 anarchici e all'eliminazione di Andrés Nin, uno dei fondatori del partito comunista spagnolo, già segretario di Trotzkij a Mosca. C'è una dichiarazione giurata in cui Aleksandr Orlov, famigerato emissario di Stalin, attesta che egli a Barcellona prendeva ordini dal compagno Ercoli. Togliatti e Orlov assoldarono Ramón Del Rio Mercader, il sicario che nel 1940 a colpi di piccozza fracassò il cranio a Trotzkij rifugiato in Messico. Lo sa chi era questo Mercader?».
No. «Il fratello della moglie di Vittorio De Sica. A incarico concluso, avrebbe dovuto tornare in Russia. Venne liquidato prima, in un albergo in Olanda. All'improvviso mi fu chiaro perché il Migliore non parlasse mai della sua vita serpentina durante la guerra di Spagna. Antonio Gramsci diceva che Togliatti "anguilleggiava", procedeva come procedeva Stalin. Non aveva trovato in Stalin il suo dittatore preferito: era Stalin lui stesso. E soprattutto taceva e mentiva su un altro crimine orrendo».
Quale? «Il 1° agosto 1937 era stato prelevato a Barcellona da un aereo militare sovietico e condotto a Mosca perché, come vicecapo dell'Intemazionale comunista, doveva firmare la condanna a morte dell'intera dirigenza del partito operaio polacco. Quindici persone, trotzkisti ed ebrei. Tutti ammazzati. Per cui un giorno, mentre scendevo con lui in ascensore a Botteghe Oscure, gli chiesi: "Scusa Togliatti, ma secondo te che cosa avrebbe fatto Gramsci se si fosse trovato nelle tue stesse condizioni?". Mi fissò algido, lo ricordo come se l'avessi ancora qui davanti. Senza volerlo, l'avevo posto di fronte al suo vero problema: il confronto col maestro. Rispose: "Gramsci sarebbe morto". Lì per lì non capii. Ma poi, ripensandoci, compresi che cosa intendeva dire: Gramsci avrebbe pagato con la propria vita piuttosto che firmare quell'ordine atroce. Togliatti s'era dato la patente di assassino. Non c'entrava più la politica, ma l'umanità».
Il comunismo è davvero morto? «Direi di no. È fallito, non è la stessa cosa di prima. Ma non cambia il comunismo uomo, l'essere fedeli solo alla propria ideologia. Ora c'è Putin, c'è una classe politica intelligente, abile, che vince le elezioni e sa gestire la ricchezza, ma che non ha alcun rispetto per la vita altrui. Il comunismo è questo: il disprezzo per l'uomo. Se bisogna affondare un sommergibile nucleare per coprire i segreti militari, lo si affonda. Anche se a bordo ci sono 118 marinai. È morta l'ideologia, rimane la brutalità. Oggi c'è il partito dello Stato slavo, che è peggiore di quello bolscevico».
Da chi è stato sconfìtto il comunismo? «Dal punto di vista materiale, da nessuno. Non è stato sconfitto in battaglia. Gli ha tenuto testa una minoranza che non ha mai ceduto. I dissidenti non hanno fatto lo sbaglio di proporre un altro partito: hanno semplicemente proclamato la verità. Arcipelago Gulag di Solzenicyn non è un'opera anticomunista: è la verità. Il dissenso è trascendente, metastorico. Nasce da una rivolta spirituale. Il dottar Zivago di Pasternak non è una divisione di fanteria o di artiglieria che puoi combattere: è l'amore proposto come verità. E poi c'è stato questo vescovo che tutte le domeniche predicava forte e chiaro dal pulpito di Cracovia e ha continuato a farlo anche dal soglio di Pietro».
L'ha sconfitto il cristianesimo, allora? «Ma i comunisti non erano atei. Togliatti non era stato in seminario come Stalin, però nutriva un'autentica devozione per Sant'Ignazio di Loyola e tra i parenti aveva un rettore di santuario e una suora salesiana. La più bella orazione funebre la pronunciò in memoria di don Giuseppe De Luca, il prete della Curia romana che lo accompagnò da Papa Pacelli e in seguito spianò la via anche all'udienza che GiovanniXXIII concesse al genero di Krusciov. Entrambi, Togliatti e Stalin, non si dichiaravano contrari a Dio. Dicevano un'altra cosa: che si può fare a meno di Dio. La ragione da sola è crudele. Se gli fa comodo, la ragione ammazza. Ecco, io ho scoperto che non si può fare a meno di Dio. Ma non è stato un percorso facile, rettilineo».
Adesso per chi vota? «Da qualche anno non voto. È difficile, per me. Soffro. Ho dedicato la vita alla politica».
Qual è stata la colpa peggiore di Togliatti? «La disumanità. Ne fece le spese anche l'unico figlio».
Aldo. «Aldino, sì. Lui del '25, laureando in ingegneria, io del '22. C'era grande affinità fra noi. Il padre lo disprezzava perché si vergognava a dire in giro che era il figlio di Togliatti. La sua psiche fu segnata dal lungo esilio al Lux, l'albergo di Mosca in cui risiedevano i gerarchi del Komintem, dove la madre Rita Montagnana faceva a botte con le altre donne per disputarsi le stoviglie abbandonate dalle famiglie che di notte venivano fatte sparire dalla temutissima Nkvd. Il Lux era l'albergo dei topi. Richiamati dalle farine della panetteria Filipov che aveva sede al pianterreno dell'edificio, i ratti risalivano dalle fogne lungo le tubazioni e scorrazzavano per le camere. La Montagnana mi raccontava che ogni nucleo aveva in dotazione un bastone per ammazzarli».
Aldo finì in una cllnica privata per malati di mente, mi pare. «Si, Villa Igea, vicino a Modena. È ancora vivo, credo. Sta rinchiuso lì dal 1981. Schizofrenia e autismo, pare abbiano diagnosticato i medici. Avrei una voglia immensa di rivederlo. Una volta andai. Chiesi: dov'è il figlio di Togliatti? Per me non c'era più, sparito. Gli hanno persino cambiato nome. È diventato "Aldo 227". L'unico autorizzato a vederlo era un comunista modenese, un operaio metalmeccanico in pensione: 15 minuti d'incontro ogni martedì. Sarà ancora vivo anche lui?».
Quanto pesò nelle vicende interne del Pci la relazione fra Palmiro Togliatti e Nilde lotti, formosa deputata di Reggio Emilia? «Contro di lui pesò molto. Il capo era il modello, doveva dimostrare moralità, essere superiore a tutto, anche alle debolezze della carne. Ma nel partito vigevano due pesi e due misure. Ai giovani funzionari si richiedeva la castità prematrimoniale. Fu il delfino di Togliatti, Enrico Berlinguer, all'epoca segretario del movimento giovanile comunista, a celebrare in un articolo la purezza e il martirio di Santa Maria Goretti. Prevalevano anche ragioni di sicurezza: il timore era che qualche sciantosa al soldo dalla Cia traviasse i compagni per carpire loro i segreti del Pci. A controllare i più esuberanti l'ufficio quadri aveva messo Antonio Cicalini, un vecchio cerbero del Komintern. Era il partito a decidere per loro quale fosse la donna giusta da prendere in moglie. Alla nomenklatura, invece, si perdonava tutto, magari con la scusa che aveva diritto a rifarsi del tempo perduto al confino o in galera durante il Ventennio. Fioriva lo scambio di fidanzate e di mogli. Si doveva pescare nello stesso mazzo, perché la militanza comunista rappresentava il criterio prioritario di scelta. Il privato era talmente pubblico che quando Luigi Longo decise di mollare la moglie Teresa Noce, lei, adiratissima, pretendeva di discuterne in direzione come se fosse un fatto politico».
E se ne discusse? «Di sicuro non con la ripudiata, visto che lui le notificò l'avvenuta separazione a mezzo stampa, con un comunicato sull'Unità. Del resto un giorno Longo m'aveva spedito a prendere la Noce in stazione, e avendogli io obiettato che non sapevo che faccia avesse, mi rispose gelidamente: "Non puoi sbagliare. È la più brutta che scende dal treno"».
Un villano. «I comunisti sono fortemente misogini. Ritengono che la donna abbia un'unica funzione».
Riproduttiva? «Magari, sarebbe già indice di nobiltà d'animo. No, ludica. Con le donne ci si diverte e basta».
Però il compagno Lenin, una volta rientrato in Russia, aveva troncato con l'amante Inessa e s'era ripreso la legittima consorte, l'austera Nadezhda Krupskaya. «Ed è precisamente il motivo per cui Pietro Secchia, campione di marxismo-leninismo, che già era stato da Stalin a parlargli male del Migliore, si rifiutò di affittare un alloggio per Togliatti e la lotti. I due concubini finirono così al sesto piano del Bottegone, in un abbaino infuocato d'estate e gelido d'inverno, con le valigie aperte per terra. Della cosa eravamo al corrente in pochissimi. Una notte venni svegliato di soprassalto da una telefonata: "Dottore, sono la guardia giurata di Botteghe Oscure. Ho sentito dei rumori, ci sono i ladri su in commissione cultura, al sesto piano. La pora di ferro è chiusa dall'interno. Ho sparato alcuni colpi di pistola, ma non sono riuscito ad aprirla". Mi precipitai in sede e trovai i due amanti nel loro rifugio, accovacciati per terra in un angolo. Avevano rischiato di finire accoppati».
Vera o apocrifa quella lettera da Mosca del 15 febbraio 1943, scritta dopo la disfatta dei nostri alpini a Nikolajewka, in cui Togliatti, segretario del Komintern, affermava che «se un buon numero di prigionieri morirà, in conseguenza delle dure condizioni di fatto, non ci trovo assolutamente niente da dire. Anzi». «Verissima. Molto prima che apparisse per la prima volta su Panorama nel 1992, me ne parlò colui che l'aveva ricevuta, il compagno Vincenzo Bianco. Io rimasi scioccato dalla malvagità del teorema esposto dal Migliore: "II fatto che per migliaia e migliaia di famiglie la guerra di Mussolini e soprattutto la spedizione in Russia si concludano con una tragedia, con un lutto personale, è il migliore, il più efficace degli antìdoti"».
Lei c'era quando Pietro Ingrao incontrò Togliatti il 4 novembre 1956 e gli confidò la sua angoscia perché i carri armati sovietici avevano invaso Budapest, al che il segretario gli avrebbe risposto: «Io invece ho bevuto un bicchiere di vino in più». «No, non c'ero. Ma l'episodio mi venne riferito da Nilde lotti in persona, per cui non ho motivo di dubitarne».
Sa qualcosa dell'orologio che Togliatti teneva nel taschino come «caro ricordo» della guerra in Spagna e che era stato strappato dagli insorti comunisti a un nazionalista fucilato sotto i suoi occhi? «In tutta coscienza devo dire che a me non raccontò mai di come ebbe quell'orologio. Però sono testimone di un fatto che fa il paio con questo. Mi accorsi che Togliatti possedeva un'edizione rarissima del libro Nome e lacrime di Vìttorini, uscita nel 1941 dall'editore Parenti di Firenze. Dove l'hai preso?, mi venne spontaneo chiedergli. "Me l'ha dato il compagno D'Onofrio, sovrintendente all'acculturamento dei prigionieri italiani in Russia". Era quell'Edoardo D'Onofrio, poi diventato senatore del Pci, che dalla Spagna aveva segnalato in una relazione al Komintern d'aver fatto passare per le armi "28 seguaci di Nin, 34 trotzkisti, 39 fascisti". Nei lager staliniani indossava la divisa dell'esercito sovietico e cercava d'indrottinare i nostri connazionali. Prima di consegnare i più riottosi al plotone d'esecuzione, evidentemente gli fregava i libri».
Quanto guadagnava come segretario di Togliatti? «Il 40 per cento dello stipendio di un deputato, quindi 25-30mila lire al mese, circa 6-700mila lire al valore di oggi. E avevo l'auto di servizio, una Topolino».
L'ultima volta che lo vide? «Il 9 agosto 1944, quando partì per la Russia con Nilde Iotti. Era così furibondo per quel viaggio... Odiava, ricambiato, Krusciov. Infatti quest'ultimo si recò in visita ufficiale nelle terre vergini della Siberia proprio all'arrivo dell'ospite indesiderato, che a Mosca era sempre stato accolto col tappeto rosso come un re. E lì cominciarono subito i misteri».
Cioè? «I russi pretesero di sottoporre Togliatti a una serie di visite mediche nella clinica del Cremlino che non erano state né richieste né previste. Sembrava la vigilia di un colpo di Stato. È probabile che il Migliore trescasse con Breznev per il defenestramento di Krusciov. Fatto sta che alla fine Togliatti fu caldamente esortato ad andare in vacanza a Yalta, sul Mar Nero. Dove lo invitarono a tenere un discorsetto in russo ai pionieri locali, facendogli raggiungere il luogo del raduno a piedi e lasciandolo senza cappello sotto il sole cocente. Venne colpito da emorragia cerebrale».
Sospetta che i sovietici l'abbiano «aiutato» a congedarsi? «Di sicuro attesero il ritorno di Krusciov prima di prendere qualsiasi decisione. Ora anche un bambino sa che l'ictus richiede trattamenti tempestivi. Invece l'intervento chirurgico fu tentato soltanto dopo sette giorni. Mario Spallone, medico personale di Togliatti, baciò le mani del collega Alexander Arutiunov prima che entrasse in sala operatoria. Non servì».
Se Togliatti era il Peggiore, chi fu il Migliore tra i comunisti? «Gramsci, senza alcun dubbio».
E tra quelli con cui lei ha lavorato? Forse Giorgio Amendola, figlio di un liberale? «Amendola? Quando una leucemia gli portò via la figlia giovanissima, per il dolore non volle percorrere mai più la strada di Capodimonte dov'era morta. Ma se doveva decidere la fucilazione di qualcuno, lo faceva fucilare senza tante balle. Appena fui radiato dal Pci, lo incrociai in Transatlantico a Montecitorio. Procedeva sulla passatoia rossa con l'incedere solenne di un alto dignitario. Giunto a un palmo da me, schivò la mia mano tesa. Per scansarmi, fece un'impercettibile deviazione, senza una parola, né uno sguardo, né un sussulto. Semplicemente proseguì, come se fossi trasparente. Non fu solo l'annientamento di un rapporto che era stato affettuoso, ma una deliberata ingiuria. Mi sentii lo scarafaggio della Metamorfosi di Kafka, un ciottolo, un inciampo. Il gesto simbolico era un mostruoso anticipo di quella cancellazione dell'altro, tipica del comunismo, che prelude a ogni tipo di violenza».
Fra gli ex comunisti che oggi guidano i Ds, chi assomiglia di più a Togliatti? «Massimo D'Alema. Infido. Ingrato. Concorrenziale. Non vorrei stare nei panni di Passino e di Prodi. È uno di cui bisogna aver paura».
Non a caso il senatore Giuseppe D'Alema, suo padre, disse a un mio amico che lavorava all'Istituto Gramsci: «A volte mio figlio mi fa paura». «Non stento a crederlo. Ha la stessa cupidigia di potere, la stessa superbia intellettuale, la stessa cinica freddezza di Togliatti: il partito siamo noi, il partito deve vincere».
Non fosse morto Enrico Berlinguer, oggi esisterebbero i Ds? «Se avessero vinto uomini come Luciano Lama o Giorgio Napolitano, avremmo avuto un Pci diverso. Berlinguer scaricò i dissidenti del Manifesto al 12° congresso nel 1969. Ci tradì bassamente dopo averci assicurato protezione. È terribile dover votare per alzata di mano. Il partito non è una fetta della tua vita. È la vita stessa. Non è che al mattino fai il comunista e il pomeriggio un'altra cosa. Quando sei comunista, lo sei sempre, anche mentre dormi o ti lavi i denti».
L'oro di Mosca lei l'ha mai visto? «Sia quello di Mosca che quello di Dongo».
Cominciamo da quello di Mosca. «Più di me l'ha visto Armando Cossutta. Se mi recavo a Praga, la frase di rito era: "Passa dal partito ceco che ti devono dare qualcosa"».
Cosa? «Pacchetti. Di dollari, naturalmente. Ma gli affari più grossi si facevano con le aziende amiche. Tanto che quando Berlinguer spedì un funzionario a Mosca per informare il Pcus che il Pci intendeva rinunciare ai fondi neri, i dirigenti sovietici, dopo averne preso atto, lo fermarono sulla porta chiedendogli: "Scusa, compagno, e il denaro per l'oleodotto Urss-Italia chi l'ha intascato?"».
E l'oro di Dongo? «Lo amministrava Renato Cigarini, residente a Milano in corso Sempione. Nell'appartamento sottostante al suo abitava Augusta Bondanini, vedova di Arnaldo Mussolini, fratello del duce. In seguito andarono a vivere insieme ad Arma di Taggia. Cigarini, ex legionario di Fiume e avvocato matrimonialista alla Sacra Rota, era stato incaricato di nascondere nelle banche elvetiche il tesoro sottratto ai gerarchi fucilati a Dongo: oltre un miliardo di lire, 150mila franchi svizzeri, 16milioni di franchi francesi, 66mila dollari, 2mila sterline, 10rnila pesetas. Inoltre mi disse che aveva riciclato 100 chili d'oro, 40 chili d'argenteria, 4mila monete d'oro, anelli con brillanti, persino il Rolex d'oro di Marcello Petacci, fratello di Claretta. L'avvocato faceva la spola tra l'Italia e la Svizzera. Ogni mese si presentava alle Botteghe Oscure portando i quattrini necessari al sostentamento del Pci. Prima vedeva Togliatti al secondo piano, poi saliva al terzo da Egisto Cappellini, amministratore del partito. Infine, al quarto, faceva visita a Secchia, cioè a colui che aveva affidato l'esecuzione di Mussolini a un professionista, un agente del Komintern, e non, come si volle far credere, a Walter Audisio, che era un insignificante ragioniere della Borsalino».
E come venne in possesso Cigarini dell'oro di Dongo? «Lo ebbe in custodia da Dante Gorreri, segretario della federazione comunista di Como, che era stato mandato in zona per sbrigare la pratica. Fu Gorreri l'unico a riconoscere il duce travestito sul camion tedesco diretto in Svizzera. Gorreri era di Parma e si fidava di Cigarini, originario della stessa città. Alcuni partigiani avrebbero voluto consegnare l'oro di Dongo allo Stato. Scoppiò una faida tra compagni, con una dozzina di omicidi».
E perché l'avvocato Cigarini avrebbe spifferato proprio a lei uno dei segreti meglio custoditi della storia italiana? «Aveva assolutamente bisogno di raccontarlo a qualcuno, non poteva tenere tutta per sé una golosità del genere. E siccome era un tipo simpatico e mi considerava un amico...».
È vero che il 10 giugno 1946 Togliatti, ministro della Giustizia, bloccò la proclamazione dell'esito del referendum monarchia-repubblica perché non era sicuro d'aver vinto? «Certamente la Repubblica è nata con un parto cesareo. L'ostetrico fu Togtìarti, aiutato da Marcella Ferrara e da me. Il computo dei voti veniva fatto al ministero della Giustizia, non so se mi spiego... Eravamo efferati, ma non stupidi. I passaggi più delicati li ho visti tutti».
Sta confermandomi i brogli? «Le dico solo questo: avevamo fatto stampare più schede del numero dei chiamati alle urne. In caso di necessità...».
Del dossier Mitrokhin che cosa pensa? «Quale consulente della commissione parlamentare d'indagine, non posso parlare. Forse dovrebbe chiedere a un giornalista che in quella commissione rappresenta la sinistra e che era stipendiato regolarmente da Mosca».
E ora lei scrive con Vittorio Messori sul Timone, mensile di apologetica. Una bella piroetta... «Ho fatto un grande incontro».
Con chi? «Col Vangelo».
Non l'aveva mai letto? «Soltanto sfiorato, pur essendo di madre cattolica, battezzato, cresimato. Ho incontrato questo oggetto immateriale, così ricco di umanità, di semplicità. Ho scoperto che la mia strada era quella: seguire un libro, non una persona».
Ma come mai tutti quelli che erano eretici in tempi di ortodossia alla fine diventano ferreamente ortodossi in tempi di eresia? Ci sono più brigatisti rossi da don Mazzi o nell'Opus Dei che in galera. «Sono pochi quelli che sanno ragionare. Noi, mi perdoni la perentorietà, siamo tra quelli. Abbiamo sbagliato tanto. È venuta l'ora di correggere. Non mi assolvo. Ma neppure mi macero. Non piango sulle piaghe delle mie sconfitte. Non dimentico e non rifiuto nulla. Non nutro risentimenti. Cerco la forza di dare testimonianza da buon cristiano. Il mio modo di non essere più comunista non è quello di diventare anticomunista, ma di ascoltare e di pensare».
E quando pensa al suo passato che cosa prova? «Sofferenza».
Da Il Giornale del 25 aprile 2004 |
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